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Cartella esattoriale – difetto motivazione pretese di pagamento

La cartella esattoriale è l’atto inviato dall’Agenzia Entrate Riscossione per recuperare e riscuotere i debiti iscritti a ruolo dagli Enti creditori.

Può trattarsi non solo di tributi, ma anche di contributi previdenziali, multe stradali ed altri tipi di sanzioni. Ogni cartella esattoriale deve essere redatta secondo un modulo predeterminato dall’art. 25 D.P.R. 602/1973 che specifica gli elementi essenziali e il contenuto di questo documento, che ha valore di titolo esecutivo e preannuncia, in caso di mancato pagamento, la riscossione forzata dei crediti in essa riportati.

Il contenuto minimo della cartella esattoriale è rappresentato da una intimazione di pagamento degli importi indicati e, per ciascuno di essi, deve essere specificata la causale (tipo e numero di ruolo ed anno di riferimento) e la data della notifica degli atti impositivi, se emanati.

La cartella deve contenere le avvertenze obbligatorie sui termini e sulle modalità di impugnazione dell’atto, riportare il nominativo del responsabile del procedimento ed anche il calcolo degli interessi applicati.

Gli interessi considerati nelle cartelle esattoriali non appartengono ad un’unica categoria ma possono essere di quattro tipi diversi:

1) interessi per mancato versamento, applicati a decorrere dalla scadenza stabilita per il pagamento;

2) interessi per ritardata iscrizione a ruolo, quando dalla dichiarazione sottoposta a liquidazione o a controllo formale, ex art. 36 bis e art. 36 ter D.P.R. 600/1973, emergono importi non versati dal contribuente;

3) interessi per dilazione di pagamento, che vengono applicati alle somme rateizzate in modo da essere suddivisi e inglobati nelle singole rate previste dal piano concesso;

4) interessi di mora, che sono quelli tipici e propri delle cartelle esattoriali e hanno una funzione di risarcimento e di compensazione dell’inadempimento analoga agli interessi moratori previsti dall’art. 1224 del c.c.

La cartella deve essere, quini, “trasparente” e correttamente motivata, ragione per cui, quando insieme al capitale (imposte, sanzioni, ecc.) vengono richiesti anche gli interessi, è necessario che il contribuente sia posto in condizione di verificarne il calcolo eseguito, a giustificazione della somma richiesta in pagamento, calcolo che, pacificamente deve essere stato fatto dall’agente della riscossione.

Nella cartella, vanno poi riportati i seguenti elementi: 

  • la data a partire dai quali è partito il decorso degli interessi; 
  • le aliquote applicate per ciascuna annualità (è noto, infatti, che la percentuale degli interessi varia di anno in anno secondo le indicazioni del ministero), non competendo tale ricerca al contribuente; 
  • l’importo totale degli interessi separati dalla somma dovuta a titolo principale, per la dovuta trasparenza. 

L’indicazione di tali elementi serve, infatti, a consentire un controllo sulla cartella di pagamento, tanto da parte del contribuente, quanto da parte del Giudice (eventualmente) adito, cioè a verificare se il conteggio degli interessi sia stato o non sia stato correttamente effettuato dal richiedente il detto pagamento, conteggio in preciso carico infatti all’agente della riscossione, ex art. 2697 c.c., quale attore in senso sostanziale.

Si ritiene, mera opinione dello scrivente, pur nel rispetto dovuto e che sempre si deve ad ogni sentenza, non debitamente puntuale la sentenza della Suprema Corte a sezioni unite, n. 22281 del 14 luglio 2022, in cui si è inteso dire che: “solo nel caso in cui la cartella costituisca il primo atto con cui si reclama per la prima volta il pagamento degli interessi, la stessa, al fine di soddisfare l’obbligo di motivazione deve indicare, oltre all’importo monetario richiesto a tale titolo, la base normativa relativa agli interessi reclamati, che può anche essere desunta per implicito dall’individuazione specifica della tipologia e della natura degli interessi richiesti oppure del tipo di tributo cui accedono; essa deve altresì segnalare la decorrenza dalla quale gli interessi sono dovuti e che, In ogni caso, non è necessaria la specificazione dei singoli saggi di interessi periodicamente applicati né delle modalità di calcolo”.

Ed invero ha nel tempo chiarito la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 109 del 2007 che, in forza del dictum dell’articolo 2697 c..c. “chi vuol fare valere un diritto deve darne prova relativa” e ciò vale tanto per il contribuente quanto per l’A.F. o l’agente della riscossione, che hanno infatti parità di diritti e doveri nelle liti.

E’, infatti, circostanza pacifica che la cartella esattoriale, al pari dell’avviso di accertamento, è un “atto impositivo”, per cui “deve riportare in modo chiaro e completo quali sono gli interessi applicati, i periodi di riferimento ed il criterio adottato per conteggiarli, poichè l’indicazione globale (cioè solo con l’importo finale e complessivo) è motivamente insufficiente, non consentendo agli interessati (contribuente e/o Giudice adito) di poter verificare (e nel caso contestare) il perché e il percorso posto in essere dall’A.F. (e/o dall’Agente della riscossione) per giungere a tale cifra richiesta in pagamento, ciò maggiormente per il fatto che la parte richiedente ha già fatto tale conteggio, diversamente non troverebbe giustificazione la richiesta di pagamento avanzata, per cui (mera opinione dello scrivente) non è dato comprendere il motivo del mancato riporto nella cartella o in qualunque atto di pagamento (se correttamente eseguita), anche in quanto non vi è, in un tale riporto, un costo aggiuntivo da sostenere.

In ogni caso il calcolo degli interessi deve essere esplicitato e consentire al contribuente di svolgere gli opportuni controlli, ex   artt. 7 e 17 della L.212/2000, art. 3 della L.241/1990, ed art. 2697 c.c., in quanto l’onere della prova è strettamente connessa con l’onere dell’allegazione dei fatti da provare, laddove tali fatti siano stati specificamente contestati dal contribuente., e risulta, quindi rilevante, ex art. 184 c.p.c.,atteso che “tali garanzie hanno il loro fondamento giuridico nelle norme costituzionali, ed è regola essenziale, cui deve attenersi l’Amministrazione Finanziaria o l’agente della riscossione, in quanto rientrante nei principi di imparzialità, di trasparenza, collaborazione e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., per cui deriva l’obbligo in tal senso ex art. 10 L. 212/00.

Ciò in quanto, la motivazione dell’atto è lo strumento essenziale di garanzia del diritto di difesa del contribuente, nel cui difetto l’atto è conseguentemente “illegittimo”, risultando, inoltre, che i motivi presenti nell’atto delimitano il perimetro del giudizio, essendo stato tale limite tracciato dalla parte attrice in senso sostanziale, con la motivazione scritta dell’atto.

In diversa prospettazione, sembra volersi dire che, in quanto tale calcolo è stato fatto dall’Amministrazione Finanziaria o dall’Agente della riscossione, debba essere “legittimo per principio”, ed, invero, tanto non è, avendo le parti interessate parità di diritti e doveri e dovendosi il Giudice proporsi “in terzietà”, diversamente viola i principi cardini del corretto diritto di difesa e del “giusto processo”, come da specifica disposizione costituzionale, non potendo, quindi, ritenere comunque “veritiera tale richiesta di pagamento”, pur non avendone potuto verificare la ritualità della richiesta di pagamento.

E’, infatti, solo nella corretta motivazione che è dato di capire l’iter logico giuridico della pretesa di pagamento chiesta, ossia come si è arrivati a chiedere quella cifra, in base a quali norme, a quali calcoli e quali ragionamenti. In definitiva ogni atto tributario (sia che si tratti di accertamenti fiscali dell’Agenzia delle Entrate che di cartelle di pagamento o altri atti esattoriali), deve permettere al contribuente di comprendere motivatamente e chiaramente la natura della pretesa di riferimento, la norma di riferimento degli interessi richiesti e quant’altro, atto a legittimare il conteggio fatto, che va conseguentemente riportato nell’atto, di cui si chiede il pagamento, nella cui assenza di prova (art. 2697 c.c.) e di motivazione (art. 3 L. 241/90 ed artt. 7 e 17 L. 212/2000), la richiesta avanzata è illegittima e quindi va annullata, in quanto “in sede giudiziale il fatto non provato è considerato come non giuridicamente esistente”, nel cui difetto le pretese di pagamento moratorie richieste vanno annullate, in quanto il vizio di motivazione rappresenta una violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 21 octies dell’art. 3 cit., in quanto la verifica dell’osservanza dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa di pagamento chiesta deve essere riscontrata non in astratto bensì alla luce delle finalità che tale obbligo è chiamato ad assolvere.

Nicola Recinello Coordinatore Nazionale Dipartimento Giuridico

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