Comparti TutelaDiritto LavoroRapporti Lavoro

Patto di non concorrenza – giurisprudenza

La giurisprudenza riconosce a tutte le categorie di lavoratori alcuni diritti minimi, che la clausola di non concorrenza deve rispettare a pena di inefficacia:

  • obbligo della forma scritta;
  • durata massima non superiore a quella prevista per legge (5 anni per i dirigenti e 3 anni per le altre categorie);
  • limitazione di luogo, tempo e oggetto non esclusive.

In tal senso, la giurisprudenza prevalente afferma che “i limiti posti all’attività lavorativa devono essere valutati in relazione all’attività professionale effettivamente svolta dal lavoratore”.

E’ infatti necessario che il patto consenta di svolgere un’attività conforme alla qualificazione professionale maturata nel corso degli anni.

Pertanto, quando l’accordo riguarda un intero settore merceologico, si deve distinguere tra le attività tipiche ed esclusive del settore e le attività esercitabili indifferentemente in altri settori e, in relazione a tale distinzione, verificare se al lavoratore rimanga o no la possibilità di esercitare un’attività conforme al proprio corredo professionale (vedasi in tal senso Cass. sent. n. 10062/1994).

Ad ogni modo, deve sussistere una correlazione tra attività vietate e interesse del datore di lavoro.

Si esclude, infatti, l’illegittimità del comportamento di un lavoratore che, pur lavorando alle dipendenze di un’impresa concorrente a quella del datore di lavoro nei confronti del quale si è impegnato con il patto di non concorrenza, svolga mansioni diverse rispetto a quelle esplicitate nel pregresso rapporto e non comporti alcun pericolo di concorrenza.

Stesse considerazioni per i limiti territoriali, che devono essere valutati in relazione ai limiti posti dall’accordo alla attività da svolgere.

La ratio della norma rimane quella di garantire al lavoratore la possibilità di continuare a svolgere un’attività confacente alle proprie attitudini e capacità.

Come detto al fine di sopperire ai rischi sopra indicati il datore di lavoro ha dalla sua la possibilità di ricorrere al “patto di non concorrenza” (previsto dall’art. 2105 codice civile soltanto per la durata del rapporto di lavoro), anche ad un periodo successivo alla cessazione del medesimo.

Il patto è un contratto a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, la cui validità è subordinata ad un articolato ordine di limiti ovvero:

  1. necessità della forma scritta;
  2. previsione di un corrispettivo;
  3. delimitazione delle attività di concorrenza vietate;
  4. limiti di durata.

Per quanto riguarda la misura del corrispettivo è bene considerare che sono nulli i patti di non concorrenza non remunerati e quelli con un compenso a titolo simbolico (vedasi Cassazione, sentenza n. 4891 del 14 maggio 1998; Cassazione sentenza n. 4891 del 14 maggio 1998).

La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che “in ogni caso, il corrispettivo non deve essere simbolico, ma proporzionato al sacrificio sopportato dal lavoratore e determinato nel suo ammontare (vedasi Cassazione, sentenza n. 4891 del 14 maggio 1998).

La giurisprudenza ha, pertanto, ritenuto che il corrispettivo debba aggirarsi almeno intorno al 10-15% / 25%-35% della retribuzione lorda annua, secondo l’ampiezza dei vincoli di oggetto, di territorio e di durata.

L’orientamento giurisprudenziale attuale tende a non limitare il patto alle sole mansioni svolte dal lavoratore ma lo estende allo svolgimento di qualsiasi attività che entri in concorrenza con quella di produzione e vendita del datore di lavoro, pur se esiste un limite costituito dal fatto che il patto non può  rendere di fatto impossibile al lavoratore l’esercizio di ogni altra attività lavorativa inerente alle proprie attitudini professionali, a pena della sua nullità (vedasi Cassazione, sentenza n. 15253 del 03 dicembre 2001; Cassazione, sentenza  n. 5477 del 02 maggio 2000).

In caso di violazione del patto da parte del lavoratore il datore di lavoro ha diritto ad ottenere la cessazione dell’attività da parte del lavoratore, la restituzione del corrispettivo versato ed il risarcimento dei danni provocati.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, ed a tre anni negli altri casi.

Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.

I limiti di oggetto, di tempo e di luogo debbono essere considerati, in relazione alla concreta professionalità dell’obbligato, nel loro complesso, ovvero nella loro reciproca influenza, con la conseguenza che il patto deve ritenersi nullo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità acquisita dal lavoratore e ciò a maggior ragione qualora sia previsto a favore del lavoratore un corrispettivo irrisorio rispetto al sacrificio derivante dal patto  (vedasi Tribunale di Milano, sentenza del 12 luglio 2007).

Avv. Andrea Paolillo, Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico